mercoledì 27 aprile 2011

Le mie mani

Un mare bianco, calmo, solcato da sottili onde di china blu da quatto soldi.
Un sordo rintocco di campane le accompagna mentre, come abili ballerine, solcano il pelo dell’acqua increspandolo appena. Dall’alto una piccola lucciola illumina tutto, proiettando strane ombre che sembrano rincorrersi senza una meta precisa al calar della sera.
Partito da un porto lontano un albero maestro fa capolino all’orizzonte lasciando dietro di se una scia nera di lettere sfocate.
Loro salgono, fiduciose di partire per un lungo viaggio. Un viaggio in terre sconosciute, come quelle che altre hanno narrato.
L’attraversata è lunga e alcune sono stanche e sbucciate ancora prima di partire, ma il nostromo è saggio e saprà guidarle attraverso tutte le insidie.
Mentre le lune si rincorrono in cielo quelle rimaste a casa scrutano lontano in cerca del veliero che, quando ha lasciato l’isola, sembrava giocare con la luce del pallido sole. Un andi rivieni costante, rassicurante, che le aveva ipnotizzate. Loro, quelle paurose, smaniano, si contraggono, consapevoli dell’occasione persa.
Sulla nave le altre collaborano, remando per raggiungere l’isola che si va materializzando all’orizzonte e, quando vi approdano, ripartono per una nuova avventura. Alla “Fonte della Felicità” sembrano non arrivare mai… Una rincorsa verso l’ignoto, verso un’”Isola che non c’è” che forse non esiste che nei sogni.
Poi, un giorno, il veliero inizia ad avvicinarsi sempre di più alla costa fino a rivelarsi per quello che è: una matita mossa dalle dita della fantasia. La “Felicità” è lì, in un tenero abbraccio tra due metà ingiustamente separate.

Carol l’ha sempre cercato quell’abbraccio. Anche oggi, seduta davanti a quel foglio bianco, vorrebbe che qualcuno la abbracciasse. Non qualcuno di astratto, irreale, vorrebbe che sua madre si alzasse da quella sedia e si decidesse a mostrarle un po’ di affetto.

La matita scorreva sul foglio, una lista di cose da riportare nella casa in cui sua madre ha sempre vissuto.

Prendi le coperte e le calze” le urlò dall’altra stanza.
Sì” rispose.

Era sempre stata un generale sua madre, una di quelle donne di un tempo; capaci solo di comandare a bacchetta; che oggi si ritrovano a dover dipendere dai figli.

Di lì a pochi giorni il Generale in grembiule tornerà a vivere in casa sua con un’estranea un po’ esotica a farle da guardiana.

La lista era quasi completa, restava solo da decidere se sostituire quegli orrendi strofinacci.
Da quando era piccola Carol non aveva mai visto in casa di sua madre uno strofinaccio con la S maiuscola, nato e concepito per essere usato per asciugare i piatti.
Le sue lenzuola rosa erano state sapientemente ridotte in brandelli dal Generale la vigilia della sue nozze con Ed. Squartate in rettangoli perfetti e riorlate con la vecchia macchina da cucire che dominava il salotto.
Ed non era mai piaciuto al Generale e quella ne era l’ennesima dimostrazione.

Mamma, ti ho comprato degli strofinacci nuovi”
Non li voglio. Tieniteli.”
Il viso di Carol iniziava a dipingersi di strane gradazioni di rosso, preannuncio dell’ennesima discussione. Carol non aveva voglia di litigare e ricacciò il drago rosso da dov’era venuto.
Dove sono i tuoi fratelli?” tuonò il Generale.
Non lo so.”
Perché non sono ancora arrivati?”
Non lo so.”
Max, Lisa e Alessandra erano abilissimi nello sparire nel momento esatto in cui Carol aveva più bisogno di loro.

Carol era la più piccola, quella che nelle famiglie normali sarebbe stata la preferita. Invece no.
Il Generale non l’aveva mai voluta: così esile, con i capelli rossi e ricci che le facevano un visino enorme, era arrivata quando ormai sua madre pensava di aver archiviato poppate e pannolini. Il suo nome, Carol, accumulava in se tutta la rabbia di sua madre: la zia Carolina era morta molti anni prima ma anche quanto era in vita era vietato parlarne. Abitava in una grande villa d’epoca ai piedi delle Alpi lasciatagli da uno degli uomini conquistati durante la guerra. Forse Carolina non aveva mai fatto nulla di male, ma per il Generale era la peggior donna sulla faccia della terra, il diavolo personificato e, quando guardava la figlia, rinnovava la sua occhiata peggiore.

Oggi non posso venire. Pensaci tu alla mamma”, Max risolveva sempre così, un freddo sms a cui Carol non avrebbe risposto. Su suo fratello non si poteva fare affidamento, ma lui era il preferito, il maschio. Colui che avrebbe portato avanti il buon nome di famiglia. Al Generale sembrava non importare che a sessant’anni Max non avesse ancora “trovato la sua strada”.

Mamma, Max non può venire. Ora preparo il pranzo e poi finiamo di fare le valigie.”
Pentola, acqua, sale, pasta, sugo, petto di pollo da cuocere alla piastra con poco olio e un pizzico di pepe. Acqua naturale, leggermente fresca, in bicchiere grande. Carol sperava di non aver dimenticato nulla per non innescare l’ennesimo rimprovero di sua madre. Il pasto era sempre un momento delicato e lo sarebbe sempre stato. Anni dopo ripensandoci avrebbe sognato di rimangiarlo all’infinito quel pollo alla piastra, con il Generale ancora li a rimproverarla.

Il pranzo volò in un silenzio teso e appena poté Carol si alzò, salì le scale e iniziò a fare l’ultima valigia. Le cose del Generale erano in due vecchi scatoloni polverosi che lei non aveva mai visto. Soffiando sul cartone ingiallito si alzò una polvere secolare che iniziò a volteggiare nella stanza.
Chissà dove le ha tenute queste scatole Lisa quando aveva la mamma a casa sua…” pensò Carol trattenendo gli starnuti. All’interno pezze di stoffa, vecchi vestiti a fiori e una scatoletta di legno poco più grande del suo portatile. Vecchie cartoline in bianco e nero con i bordi rovinati saltarono fuori appena Carol aprì il cofanetto.

Piccole gocce d’acqua iniziavano a scivolare lente sui vetri della camera. Una lieve foschia scendeva dalle nuvole sulla terra rendendo tutto ovattato, quasi nevicasse. Nella camera entrò un piccolo spiraglio di aria gelida che la fece tremare appena come una foglia rossa sul procinto di cadere dal ramo che l’aveva vista nascere. Tutti i muscoli le si tesero mentre una leggera pioggerella canticchiava a qualche metro dalla sua testa. I suoi pensieri volavano liberi oltre i nuvoloni grigi come faceva da bambina nelle giornate d’inverno quando era costretta a rimanere seduta davanti al camino. Le fiamme disegnavano paesi lontani, avventure di impavidi cavalieri e romantiche storie d’amore che forse lei non avrebbe mai vissuto.

Dietro alle cartoline piccole lettere regolari che Carol non riconosceva. Una scrittura seria, precisa, come non se ne vedevano più. Poche parole scritte con un inchiostro che una volta doveva essere statoblu ma che ora appariva sbiadito. Le aveva scritte tutte una stessa mano. Un uomo di nome Robert aveva scritto ogni mese a sua madre per più di cinque anni.

Robert era entrato nella via di Mia una fredda mattina di Gennaio del 1946 come un uragano e forse non ne era mai più uscito.
A nulla erano serviti i “no” poco decisi di Mia. Anche se non voleva ammetterlo quell’americano dall’aria da star del cinematografo l’aveva stregata.
All’inizio Robert la aspettava all’angolo della chiesa e la seguiva con lo sguardo mentre attraversava a passi leggeri la piazza, quasi volasse. Solo dopo molte settimane decise di avvicinarla con una scusa banale, ma tutti e due erano consapevoli che quelle due parole tra un giornalista americano e una graziosa casalinga italiana non erano altro che l’inizio di qualche cosa di molto più grande.
Attorno a loro nuvole di polvere si alzavano degli edifici distrutti dai bombardamenti. Grandi scheletri di cemento si leccavano le ferite senza sapere se sarebbero mai guariti. La fontana davanti alla grande facciata della chiesa, con i suoi zampilli fiochi, sembrava piangere per le ingiustizie della guerra. Tutto era distrutto e tutto sarebbe stato ricostruito negli anni a seguire.
All’interno di una camera il vapore che appannava lo specchio si stava dissolvendo lasciando intravvedere un grande letto dalla testata ebano. Mia era nuda. Si guardava. Era bella. Mia si guardava allo specchio per l’ultima volta. Sì, il controllo finale. L’importante era non fissarsi troppo a lungo dentro ai profondi occhi celesti, come stava facendo ora, perché era facile a quel punto non riconoscersi bene. Non riconoscersi più. Un ultimo sorriso a se stessa e a lui, che dormiva tra le lenzuola candide pensando di abbracciarla al suo risveglio. Il suo corpo, coperto solo da un sottile lenzuolo bianco, immobile nella penombra lo faceva sembrare un dio greco sceso in terra. Mia lo stava lasciando e lui non se ne rendeva conto.
Mia non sarebbe mai salita su quell’aereo che li aspettava per portarli verso il loro futuro. Mia amava Robert ma non poteva lasciare i suoi figli, la luce dei suoi occhi, e quell’uomo con cui aveva condiviso solo il letto per molti anni. Giovanni non le infiammava il cuore con un soffio, non la faceva fremere con il solo tocco delle sue dita, ma non poteva abbandonarlo.
Le settimane senza Robert sembravano non passare. Camminando sul piazzale della chiesa Mia cercava con lo sguardo una sagoma nera che esisteva solo nei suoi ricordi, o forse non era mai esistita.
Quando Mia cominciava a credere che tutta quell’avventura non fosse altro che un sogno iniziarono le cartoline. Attendeva la postina con trepidazione, come il palo in una rapina, poi riduceva i rettangoli di cartone in tanti piccoli pezzi che sparivano nel grigiore della stufa a legna.
Quella mattina era arrivata una cartolina da Parigi: poche parole e l’indirizzo a cui rispondere se si fosse decisa a scrivergli come lui la supplicava. Il sole illuminava la cucina mentre su un piccolo foglio bianco Mia si decideva a dare a Robert la notizia: era incinta.
Carol nacque otto mesi dopo in una fredda domenica di dicembre accompagnata dall’arrivo di una cartolina da Mosca. Giovanni avrebbe voluta chiamarla Maria ma lei decise di chiamarla Carol. Quella bambina non era un miracolo, era il frutto del suo amore per un sogno venuto dal North Carolina.
Robert continuò a scriverle per altri cinque anni ma Mia non gli rispose mai più. In un vecchio cofanetto iniziò a riporre ordinatamente tutte le sue cartoline sino a quando smisero di arrivare.

Uno scricchiolio la fece sobbalzare riportandola alla realtà. Carol prese tutte le cartoline e le rimise nella scatola giusto in tempo per non farsi sorprendere dal Generale che stava salendo le scale.
Per la prima volta Carol fissò sua madre. I grandi occhi blu di Mia si spostavano frenetici nella stanza cercando di evitare quelli della figlia.
Carol avrebbe voluto dirle milioni di cose ma le parole le morivano in bocca.
Quelle scatole le sistemo io”, tuonò Mia che si stava avvicinando alla figlia.
Mamma, ti voglio bene” fu l’unica cosa che Carol riuscì a dirle prima di uscire dalla stanza.

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